Alla vigilia di un atteso voto sui biocarburanti in Commissione Ambiente del Parlamento europeo, arriva l’appello di diverse Ong che chiedono con forza di non puntare più sul biofuel proveniente da colture alimentari.
Le ragioni? Sottraggono cibo all’umanità, ne fanno aumentare il prezzo, e in fin dei conti, non sarebbero così verdi: se si utilizza un metodo di calcolo più completo, non riducono in maniera drastica le emissioni di CO2, motivo per cui invece sono stati adottati.

La promozione ai biocarburanti nasce all’interno delle politiche ambientali del cosiddetto 20-20-20, la strategia che pone come obiettivi la riduzione del 20% della produzione di anidride carbonica, il miglioramento del 20% dell’efficienza energetica, l’aumento del 20% dell’uso di energie rinnovabili.
In quel contesto, per il settore dei trasporti ad alto consumo energetico, viene fissato un target del 10% di sostituzione dei carburanti tradizionali con altri provenienti da fonti rinnovabili, di fatto principalmente biocarburanti provenienti da colture alimentari, come si è rivelato nel corso degli anni.
Oggi, con la discussione in atto si sta tentando di raddrizzare la rotta e la Commissione europea ha proposto di limitare al 5% l’apporto di questo tipo di biofuel su quel 10% di energia verde da sostituire a benzina e diesel, mentre nel Parlamento europeo i Popolari sono propensi ad andare persino oltre questo limite.

Per ong come Oxfam, GreenPeace, ActionAid, Friends of the Earth Europe, questa cifre sono assolutamente inadeguate e la proposta dell’Esecutivo comunitario, di fatto, non fa che fotografare la situazione esistente, visto che attualmente la percentuale di avvenuta sostituzione è del 4,5% circa.

I biocarburanti cosiddetti “di prima generazione”, spiega Roberto Sensi, policy officer presso Action aid, hanno avuto diversi effetti negativi nel corso di questi anni; gli stessi, tra l’altro, su cui ci si interrogava fin dall’inizio della loro scoperta e promozione. In primis, hanno contribuito ad aumentare il prezzo delle colture alimentari da cui sono ricavati, poiché ne hanno esponenzialmente aumentato la domanda (del 90% quella di colza, del 70% quella di mais, del 47% quella dell’olio di soia, etc.).
Poi, sono ormai uno dei fattori principali della corsa alla terra, sottraendo suolo alla produzione alimentare.

Secondo uno studio commissionato da Friends of the Earth Europe, con i biocarburanti prodotti a partire da colture alimentari attualmente viene sottratto alla catena alimentare il 25% delle calorie, a scapito, naturalmente, delle popolazioni più povere.
E infine, questi tipi di biocarburanti non sarebbero di fatto così green come molti credono, poiché nel calcolo delle emissioni prodotte non viene conteggiato quel fattore (denominato Iluc) che rappresenta la CO2 prodotta indirettamente, nel processo di trasformazione di un suolo agricolo verso la produzione energetica e in quello, parallelo, di cercare e mettere a coltivazione altre terre per sostituire la produzione alimentare persa nella conversione del primo campo.

Se si contasse anche questo fattore, alcuni biocarburanti ricavati da olio di palma e olio di soia risulterebbero di fatto tanto inquinanti quanto alcuni combustibili fossili e persino più inquinanti di altri.
Ma di inserire questo fattore nel metodo di calcolo, nella discussione in corso, molti non vogliono neanche sentir parlare: da qui l’appello delle Ong a farlo, e a orientare la politica dei trasporti verso alternative più verdi

 

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